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La paura come difesa dal dolore

Anche in questo caso farò alcune considerazioni su un gruppo eterogeneo di emozioni (preoccupazione, ansia, angoscia, timore, terrore, panico, ecc.) che tratterò come varianti della paura. La paura è connessa alla convinzione che possa verificarsi un evento doloroso per la persona e l’attesa nell’incertezza. La paura è in sé un’esperienza spiacevole, ma è tale in quanto la persona considera l’eventualità di un’altra situazione dolorosa. Di fatto finché si ha paura si è (ancora per un po’) al sicuro. La paura, in tutte le sue varianti quantitative e qualitative, è un’emozione che come rapidamente viene attivata, così rapidamente viene superata. La paura si esprime in uno stato di attivazione orientato a prevenire ed eventualmente affrontare o fuggire una minaccia; cessa con il sollievo dello scampato pericolo o con il dolore dovuto al verificarsi dell’evento.

Esaminerò separatamente a) la paura come reazione ad un pericolo e b) la paura come difesa.

Come ogni emozione, l’angoscia è costruita dalla persona e sentita dalla persona. In quanto processo intenzionale richiede dei chiarimenti relativi ai suoi presupposti cognitivi e all’intenzione che la distingue. Quando non esprime un’intenzionalità difensiva, la paura prepara la persona ad un’eventualità dolorosa. Ha un ovvio valore di adattamento che le versioni “patologiche” della paura non hanno.

In psicoterapia si lavora sulla paura difensiva. il lavoro analitico deve essere molto mirato Ogni “comprensione” e giustificazione delle “paure” presuppone una mancanza di empatia, o una collusione in un gioco, e disturba il proseguimento del lavoro terapeutico.

Parliamo di paura difensiva tutte le volte che non riusciamo a capire di che cosa il cliente abbia paura. Se la paura in questione risulterebbe incomprensibile per un muratore o per un matematico, abbiamo a che fare con una paura difensiva.

Ora è il caso di spendere qualche parola per chiarire come possano avere un’efficacia difensiva delle azioni emotive tanto sgradevoli come gli “stati d’angoscia”, le fobie, le “crisi di panico”, ecc. Per capire ciò ovviamente dobbiamo vedere la cosa dal punto di vista di un bambino. Se l’accettazione di un’esperienza dolorosa risulta insostenibile per il bambino, questi può preferire al dolore di una realtà “data” il timore di una catastrofe “eventuale”. Dopo anni ed anni, quella paura non costituisce più la risposta ad una situazione attuale ma è la risposta ad un vissuto non integrato; l’adulto ripete cioè l’operazione difensiva per non affrontare il vissuto che “lo perseguita”. Meglio -in questa logica- avere delle bizzarre “crisi” di panico (comunque forse “curabili” e immediatamente “spendibili” per raccogliere attenzioni e compassione) che sentire l’orrore di una solitudine irrimediabile e già classificata come devastante.

Il lavoro cognitivo è fondamentale quando i clienti dichiarano sintomi o atteggiamenti difensivi che si fondano sulla paura. Occorre ribadire l’irrazionalità della paura dichiarata, anche se questo può essere abbastanza scontato; però tale puntualizzazione non va fatta per pretendere che il cliente si rassicuri, ma per scoprire assieme a lui ciò che “realmente” costituisce un aspetto doloroso della sua vita. Questo lavoro di ristrutturazione cognitiva, per quanto elementare è una condizione obbligatoria per il lavoro più essenziale.